ALLEVAMENTO

Nell’economia curtense dell’alto medioevo, l’allevamento riveste un ruolo comprimario rispetto all’agricoltura. Ne costituisce la prova il fatto che tutti i popoli di origine barbarica dispongono all’interno del loro ordinamento giuridico di un gran numero di leggi che norma in modo minuzioso la pratica dell’allevamento.
L’unico animale espressamente destinato alla macellazione è il maiale, la cui carne è l’alimento per eccellenza anche sulle tavole longobarde.
I suini erano allevati soprattutto nelle foreste di querce, durante la stagione autunnale, quando le ghiande e le faggiole iniziavano a maturare sugli alberi, mentre il bosco forniva agli animali bacche, erbe, radici e foglie da consumare.
I maiali lasciati pascolare nei boschi allo stato semi-brado potevano talvolta ibridarsi con i cinghiali selvatici, dando origine ad esemplari dalle caratteristiche morfologiche miste.
Proprio perché la carne suina è la portata per antonomasia della cucina alto medievale, allo stesso modo anche il guardiano dei maiali, il porcarius, gode di particolare prestigio sociale rispetto agli altri pastori e persino alle altre categorie di lavoratori: infatti, questa figura è così importante da essere ricordata all’interno dell’Editto di Rotari.
Secondo quanto attestato dai patti colonici e dalle scene raffigurate nei polittici coevi dell’epoca, l’allevamento dei maiali da parte dei contadini, in quanto attività praticata in modo sistematico, era soggetto al pagamento di imposte da parte del signore, del sovrano o del latifondista.
A differenza del maiale gli ovini non erano allevati per la carne, non particolarmente apprezzata, ma per ricavarne lana dal vello e per fare burro e formaggio con il latte. Quando l’animale moriva, il suo grasso, ossia il sego, veniva utilizzato per farne candele, mentre la pelle veniva conciata per cucire abiti o per ottenere pergamena su cui scrivere documenti.
I bovini, invece, erano allevati esclusivamente perché ritenuti animali da lavoro da impiegare nei campi o per trainare carri. Proprio per via della loro utilità, i bovini non erano comunemente macellati: solo i capi più vecchi, divenuti inadatti agli sforzi fisici, venivano uccisi e destinati alla tavola dopo aver bollito a lungo le loro carni per renderle più morbide.
Vi sono poi gli animali da cortile, come polli e galline, che rientravano anch’essi nell’allevamento domestico usuale. Il pollame era utilizzato sia per le uova, sia come carne; inoltre, era il “donativo”, ossia l’exenium, che i coloni erano tenuti a offrire annualmente al signore: due polli e dieci uova per ogni podere.
Accanto al pollame più tradizionale, erano allevate anche le oche, e, in misura minore, i piccioni, le anatre, le tortore, le colombe, i pavoni e persino i cigni, tutte varietà animali destinate al consumo in tavola.
Inoltre, a giudicare dai più recenti studi, sembrerebbe che i Longobardi siano stati i primi ad introdurre in Italia i bufali, soprattutto per le qualità del loro latte, largamente impiegato nella produzione di latticini.
Infine, esaminando l’Editto di Rotari, si trovano ben cinque paragrafi dedicati agli equini. Secondo la cultura longobarda, i cavalli erano considerati animali sacri; pertanto, non potevano essere impiegati nei lavori agricoli, né tantomeno macellati. E’ da notare anche che nello stesso documento ufficiale compaiono persino delle norme per la cura della salute e dell’estetica dei cavalli, chiara testimonianza dell’attaccamento dei Longobardi per questi animali.

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