LA PESCA

Nel corso dell’età medioevale, la considerazione e il ruolo della pesca all’interno dell’economia e della cultura gastronomica mutarono rispetto all’epoca antica.
Le aree coltivate, spopolate e abbandonate, regredirono allo stato incolto e così furono ricoperte dalla vegetazione spontanea, da foreste e brughiere. Allo stesso modo, i fiumi, privi di argini, si allargarono in ampie golene, allagando vaste fasce di territorio e creando prati inframmezzati da paludi e spazi acquitrinosi.
La pesca di acqua dolce divenne un’attività molto redditizia e venne preferita a quella marina, al punto che, anche nelle zone costiere, era praticata lungo il corso dei fiumi, prima che le acque sfociassero in mare.
Per catturare il pesce si usavano tecniche diverse: i principali tipi di rete erano la paranza, la rete a sacco, detta bertuello, la nassa di vimini o di giunco, ma non mancavano lenze galleggianti e di fondo, fiocine e tridenti. La considerazione della pesca dal punto di vista sociale ed economico era così alto che, tra le leggi dei Longobardi, vi erano norme che prevedevano una sanzione con una multa di tre soldi per chi “sottrae le reti o le nasse di un’altra persona”.
Oltre alla pesca individuale, praticata nella maggior parte dei casi come attività integrativa e complementare all’agricoltura, esistevano altre tipologie di cattura del pesce che, per complessità organizzativa e gestionale, richiedevano l’impiego di più persone allo stesso tempo.
I documenti di età longobarda ci restituiscono notizie delle scholae, ossia associazioni di pescatori che si tramandavano il mestiere di padre in figlio, generazione dopo generazione, insieme all’insieme delle conoscenze pratiche necessarie. Così, gli storici sono stati in grado di ricostruire i meccanismi complessi della pesca come veniva praticata dai Longobardi: servendosi di un sistema dei recinti costruiti sott’acqua o in superficie, con argini, pali e graticci che costringevano i pesci ad entrare in luoghi chiusi dove poi venivano catturati.
Molte informazioni riguardo la pratica della pesca ci vengono dai “polittici”, cioè dagli inventari delle grandi proprietà. Ad esempio, l’inventario del monastero di Santa Giulia, a Brescia, riporta che dieci coloni della corte di Iseo “pescano nella peschiera signorile, e rendono ogni anno 1200 pesci”.
I proventi della pesca sono calcolati al pari di quelli ricavati dalle vigne, dai coltivi e dalla foresta negli inventari delle grandi proprietà.
Ne costituisce una testimonianza l’inventario dell’VIII secolo pervenutoci dalla corte di Migliarina, in provincia di Modena; infatti, da questo documento, si evince che l’appannaggio che spettava al monastero di Santa Giulia di Brescia comprendeva i pesci che si pescavano nei fiumi e negli stagni “quando il gelo e la siccità non lo impediscono”.

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