LA DIETA ALTOMEDIOEVALE

Riguardo i ricettari gastronomici, i secoli che vanno dal I d.C. al XII sono quasi completamente privi di riferimenti, con la sola eccezione dell’edizione ampliata del De re coquinaria di Apicio, nel IV secolo.
Pertanto, per ricostruire la dieta e le abitudini alimentari longobarde è necessario basarsi su documenti di tipologia differente, come contratti agrari, canoni di affitto, patti colonici, opere naturalistiche e di medicina.
In tal senso, si rivela prezioso il De observatione ciborum del medico bizantino Antimo, vissuto nel VI secolo presso la corte di Ravenna; questi ci ha lasciato un breve trattato sulla dietetica, dedicato al re dei Franchi Teodorico.
All’incirca nello stesso periodo, il compilatore Vinidario estrasse dalla raccolta del gastronomo romano Marco Gavio Apicio 31 ricette (note come excerpta) che ritenne adatte anche alla cucina del suo tempo.
Nel VII secolo, Isidoro di Siviglia si cimentò nell’opera Etymologiae, dalle cui pagine si può dedurre le caratteristiche della cucina: essa era il frutto di sovrapposizione e mescolanza di sapori molto differenti tra loro, senza la minima distinzione tra cibi dolci e salati, e altrettanto liberamente si avvaleva delle tecniche di preparazione e cottura dei cibi più disparate.
Indubbiamente, l’alimento alla base dell’alimentazione era la carne suina, che tuttavia era consumata solo in minima parte fresca di macellazione, che avveniva tra i mesi di dicembre e gennaio. Al contrario, per conservare la carne si procedeva all’essicazione, alla salagione o all’affumicatura, cui era dedicata una stanza apposita delle case, senza contare la possibilità di ricavare anche salsicce, ciccioli, prosciutti e salumi. Di tutte le parti dell’animale, quelle considerate più pregiate erano la testa e la lingua, che pertanto erano destinate alla classe degli aristocratici-guerrieri.
Proprio sulle tavole gentilizie, oltre al maiale era molto presente anche la cacciagione, sia di grossa taglia come cinghiali, cervi, daini e orsi, sia quella minuta, costituita da lepri e conigli selvatici, il tutto rigorosamente cotto sullo spiedo; secondo quanto afferma Eginardo, biografo di Carlo Magno, l’imperatore era particolarmente ghiotto proprio di selvaggina e ogni sua cena la prevedeva sempre.
Diversa era la situazione delle classi meno abbienti, che optavano per i bolliti di carne o per gli spezzatini in umido conditi con salse molto speziate, generalmente a base di vino.
Molto frequenti sule tavole erano anche gli uccelli di palude come passeri, beccafichi, tortore e pernici, oppure quelli di stagno come oche, anatre selvatiche e persino cigni, cicogne, gru e aironi.
I contadini e i più poveri, invece, imbandivano le loro parche mense con zuppe di cereali, a chicchi interi oppure macinati. Un altro tipo di farina diffusa era quella di legumi essiccati che serviva come base per i piatti unici di carne di maiale bollito.
Della dieta facevano parte anche pesce, granaglie e verdure, nel segno della continuità della tradizione gastronomica mediterranea, mentre dalle tavole dei religiosi le carni erano assenti e venivano sostituite da vari tipi di polenta di cereali, poiché allora il mais era coltivato solo nel continente americano, non ancora scoperto.
Ad accompagnare la polenta provvedevano lenticchie, fave o piselli, sotto forma di zuppa o in purea, così come abbondavano le verdure coltivate negli orti. Le varietà più diffuse erano rape, cavoli, verze e cavoli cappuccio insieme ai broccoli. Sulle tavole contadine, inoltre, non mancavano mai cipolle, aglio e porri, insieme a erbe di campo come lattuga, bietole, indivia, cicoria e radici, ossia carote violette, ravanelli e pastinaca.
Le uova erano molto utilizzate per via della loro versatilità in cucina: potevano essere bollite o servite sotto forma di frittatone alte, cotte in recipienti detti “testi”.
Contrariamente a quanto si potrebbe essere propensi a credere, anche il pesce faceva parte della dieta nell’alto medioevo. Ciò era dovuto alla diffusione del Cristianesimo e alla conversione anche dei popoli come i Longobardi, che furono così obbligati ad osservare i giorni di magro imposti dall’osservanza del calendario liturgico.
I più abbienti, insieme ai grandi complessi monastici, possedevano veri e propri vivai ittici dove venivano allevati e fatti riprodurre carpe, ghiozzi e lasche.
Nelle città di mare si consumavano anche alici preparate in diversi modi: fresche, salate o marinate; tuttavia, gli scavi archeologici hanno dimostrato che venivano pescati e consumati anche pesci insoliti e di grandi dimensioni come gli squali.
L’anguilla, il salmone, il luccio, il lampreda e lo storione erano invece prediletti dalle famiglie gentilizie, che lo consumavano fresco oppure marinato, essiccato, affumicato o sotto sale.
Anche i molluschi e i crostacei come scampi, calamari, polipi, seppie, aragoste, granchi e gamberi di fiume erano assai apprezzati, insieme alle rane, diffuse nelle paludi della zona di Padova.
Certamente dai predecessori romani, le nuove genti di stirpe barbarica hanno appreso l’arte di conservare il cibo ricorrendo abbondantemente alle spezie, sia pure con alcune differenze tra un ceto sociale e l’altro: i ricchi facevano ampio uso di quelle rare, costose e provenienti dall’Oriente come il garofano, la cannella, il pepe, il cumino, lo zafferano, lo zenzero e la noce moscata. Diversamente, i meno abbienti ricorrevano ad erbe aromatiche di più facile reperibilità come salvia, timo, maggiorana, aglio, anice e coriandolo che venivano coltivati negli orti.
L’uso delle spezie non era limitato alla sola gastronomia; infatti, anche in medicina erano impiegate per la preparazione di unguenti e farmaci rudimentali che sfruttavano le proprietà curative delle piante da cui erano ricavate. Del resto, si ricordi che per tutta l’età medievale restò ben radicata nella mentalità che le spezie fossero essenziali per riequilibrare e guarire l’organismo agendo sulle sue qualità elementari: caldo, freddo, umido e secco.

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